Imprese e sindacati giudicano il piano "Aree di confine"
'Serve più formazione
ma pure salari migliori'
MAURO SPIGESI E ANDREA STERN
Se dovesse andare in porto, il progetto italiano potrebbe essere dannoso per l’economia ticinese - avverte Fabio Regazzi, presidente dell’Aiti -. Purtroppo la tendenza è quella di considerare il frontalierato solamente come un fenomeno di manodopera a basso costo, ma la realtà è ben diversa". Per molti settori dell’economia ticinese è fondamentale poter contare sul Nord Italia, un vasto bacino che offre risorse formate e capaci. Persone che, attratte dalle remunerazioni svizzere, scelgono ogni mattina di passare la frontiera. "Capisco la frustrazione delle aziende della fascia di confine che faticano a trovare persone altamente qualificate - osserva Regazzi -. È un po’ come per quelle squadre di calcio che formano i talenti e poi se li vedono portare via dai club più blasonati. Ma non è con degli incentivi fiscali che si attenuerà questo esodo". Poiché questa situazione è figlia di una crisi profonda che sta attraversando l’Italia. "Per risolverla non bastano dei palliativi, serve - dice ancora Regazzi - una vera ripresa economica che muova il mercato".
Come lo era ancora non molti anni fa. "Ricordo che in Lombardia prima della crisi il tasso di disoccupazione era inferiore a quello del Ticino - dice Regazzi -. Oggi non è più così e allora chi ha una certa formazione ed esperienza viene a bussare alla porta in Ticino". Dove i posti di lavoro non mancano. "Abbiamo un numero molto importante di impieghi rispetto alla popolazione - spiega Regazzi -. Non potremmo mai coprirli tutti. Certo, abbiamo margini di miglioramento per quanto riguarda la formazione. Oggi spesso si privilegia quella universitaria, magari con risultati non brillanti, invece di quella professionale, che offrirebbe molte opportunità. Ma è chiaro che in certi settori la manodopera ticinese non sarà mai sufficiente. I frontalieri sono quindi fondamentali".
Calcolandola al lordo, la busta paga di un lavoratore lombardo (più alta del 15 per cento della media nazionale italiana) rispetto a quella di un ticinese, single e senza figli, sta tutta nella differenza del cuneo fiscale, cioè la somma di imposte sul reddito e i contributi sociali. Secondo i dati di Confartigianato, il primo paga il 47.8% in media, il secondo il 21.8%. Ed è su questo aspetto che in Italia vogliono fare leva. Secondo Andrea Puglia, responsabile dell’ufficio frontalieri Ocst, "il problema sta proprio nei salari, troppo bassi in alcuni settori, per cui uno svizzero non riuscirebbe a mantenersi. È lì che bisogna intervenire, altrimenti la forza lavoro locale eviterà sempre certi impieghi". Inoltre, spesso le aziende fanno capo alla manodopera italiana perché qui non trovano profili adatti. "Ad esempio nel settore sanitario - aggiunge Puglia - capita sovente di assumere personale specialistico dall’Italia. Capisco pure l’Italia si arrabbia perché forma personale che poi se ne va in Ticino".
Per Sergio Aureli, responsabile settore frontalieri di Unia e vicepresidente del Consiglio sindacale interregionale, l’associazione formata da sindacati italiani e ticinesi, "è chiaro, ed è anche banale dirlo, che un lavoratore a parità di condizioni resta a casa sua. Ma il presupposto per qualsiasi discorso è il lavoro. I frontalieri sono venuti in Ticino perché qui hanno trovato un’occupazione che a Como e Varese non c’era, o non c’era più per effetto della crisi. Ora che progetti come "Aree di confine" possano funzionare non lo so, per cambiare le condizioni quadro servono decisioni strutturali e garanzie sul futuro. Altrimenti il lavoratore non lascia un posto per un altro, anche se vicino a casa".
Per Aureli, poi, è vero che la Svizzera ha preso molti professionisti già formati, "ma è altrettanto vero che qui da noi vengono apprendisti italiani e studenti che si laureano nelle nostre università. La formazione è finalizzata alla persona. Non puoi sapere se poi quella persona resterà sul territorio". a.s./m.sp.
01.07.2018